Un fatto poco significativo

Davide Picatto

Morendo mi resi conto che avevo vissuto a vuoto.
Troppo tardi ormai, sentivo il sangue defluire rapido e un grande dolore diffuso. Non c’era più tempo per cambiare le cose o per lasciare un segno che non fosse una chiazza di sangue sul marciapiede. Me ne stavo andando perfettamente cosciente che pochi mi avrebbero pianto, e non troppo a lungo.
Muoio come sono vissuto, in maniera stupida. Il balcone del mio appartamento al terzo piano si affaccia sulla strada, ed io mi ero sporto per vedere chi aveva suonato. Erano due settimane che il mio citofono non funzionava. Si sentiva solo il campanello, ma la voce no. Quindi mi sporsi e persi l’equilibrio schiantandomi in strada, atterrando sulla schiena. Il primo volto che comparve nel mio raggio visivo, occupato dal grigio del cielo, fu quello del mio visitatore, uno di quelli che non si presenta, ma dice “pubblicità in buca”. Provai a sollevare la testa, non si alzò di un millimetro. Volevo dirgli qualcosa, volevo bestemmiare, ma niente, solo schizzi di cielo davanti ai miei occhi e facce che entravano ed uscivano dall’inquadratura.
Fin da subito ne ebbi la certezza: stavo morendo, e nessuno mi avrebbe salvato. Mi vergognavo per quella caduta e per quella morte ridicola, e volevo spiegarmi, far capire che non mi ero buttato giù, che non si trattava di un suicidio. Cos’avrebbe pensato mia madre? Si sarebbe incolpata di avermi cresciuto male, di non avermi capito, di non essersi accorta del mio disagio. Che fine di vita triste la sua, un figlio sulla coscienza.
Non sentivo nulla, non avevo udito. Lo capivo da come la gente avvicinava la faccia alla mia muovendo le labbra, aprendo e chiudendo la bocca. Cominciai anche a vedere appannato, e le palpebre erano pesanti da reggere.
Chi mi avrebbe pianto? Lucia di sicuro. E Marco ed Antonio. Mia madre e qualche finto amico. Chi mi avrebbe ricordato? Mia madre. E dopo di lei nessuno. E cosa sarebbe rimasto di me alla sua scomparsa? Una lapide con sotto qualche osso per qualche decina d’anni, un necrologio ed un articoletto negli archivi dei quotidiani della città e la mia tesi di laurea in qualche umido deposito.
Dovevo vederla da ateo. Me ne stavo andando verso il nulla, e nulla lasciavo in un mondo di cui non avrei mai più saputo nulla. Sarei andato a non soffrire, a non godere, a non sapere, a non esistere. Questo è il vero e unico paradiso, l’assenza di tutto, il non essere. Sorrisi nella mia testa a questo pensiero. Non so se le mie labbra si fossero piegate esprimendo la mia tranquillità, ma scoprii che potevo andarmene sereno, confortato dall’ateismo, la migliore delle religioni, e dal mio vuoto paradiso, il futuro più roseo.
Il mio corpo era scosso, sballottato. Tentai invano di aprire gli occhi, di vedere quel che sapevo stava accadendo. Mi stavano senz’altro caricando su una barella e con essa su un’ambulanza. Forse ci stavamo già muovendo rapidamente fendendo il traffico e intorno a me mani veloci mi bucavano o si lordavano del rosso del mio sangue. Tutto inutile, avevo voglia di dire. Risparmiate energie e materiali per qualcun altro. Evitate di portarmi all’ospedale, non fatemi attraversare corsie sotto gli occhi di tutti. Me ne sto andando, sto morendo, e non è necessario tentare di salvarmi. Non mi interessa, ora che sta capitando lasciate che sia, non fa male e non mi dispiace.

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