La presa di Melo

Davide Picatto

Racconta Tucidide (La guerra del Peloponneso, V, 84-116) che, nell’estate del 416 a.C., durante il sedicesimo anno di guerra fra Sparta ed Atene, 3000 soldati attici sbarcarono sull’isola di Melo i cui abitanti, discendenti dei coloni spartani, si erano dichiarati neutrali durante lo scontro fra le due potenze egemoniche. Gli strateghi Cleomede di Nicomede e Tisia di Tisimaco, prima di dare inizio alle operazioni, inviarono alcuni ambasciatori presso i meli che li condussero non di fronte al popolo, ma dinanzi ai magistrati ed agli oligarchi. Lo storico greco ci riporta le trattative fra le due parti sotto forma di discorso diretto, di tipo teatrale. Parole veramente pronunciate o, come più probabile, punto di vista personale sui fatti, il dialogo si trasforma in una trattazione sul conflitto fra ragion di stato ed etica.
Gli ateniesi rimproverano subito gli isolani di non averli accolti di fronte al popolo, evidentemente per tenerlo all’oscuro delle trattative e per non dover rimettersi alla sua volontà nelle decisioni, mentre i meli rispondono accusando gli attici di usare la forza per metterli di fronte ad un bivio comunque svantaggioso: o soccombere in guerra, o porsi in schiavitù. Attici che, dal canto loro, svelano subito le carte rivelando una legge di natura perfettamente rispettata dalla politica: “…nelle considerazioni umane il diritto è riconosciuto in seguito a una uguale necessità fra le due parti, mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede” (V, 89). Il diritto, le regole di comportamento etico, vengono applicate quando le due parti si equivalgono, ma quando una delle due prevale, allora vige la regola del più forte che impone il suo volere al debole. I meli devono ragionare intorno all’utile, non al giusto, senza fare altri calcoli, ed accettare il male minore offertogli dagli ateniesi, assoggettarsi al loro potere e perdere la libertà, per evitare quello peggiore, la distruzione. Oltre a ciò non ci sono margini di trattativa.
Le considerazioni portate dai meli per convincere gli ateniesi a rispettare la loro neutralità cozzano nel muro di chi, conscio della propria forza, ha già deciso: il pessimo esempio che offrirebbero con questa azione di fronte alle altre città ed ai popoli neutrali non vale quanto il desiderio egemonico di avere il controllo del mare e di mantenere in soggezione le poleis sottomesse; gli dei non stanno dalla parte dei meli contro l’ingiustizia, ma seguono anch’essi la legge naturale del più forte, per cui gli ateniesi non sono meno pii degli isolani; gli aiuti che gli spartani dovranno inviare, se non altro per dovere di consanguineità e per sentimento di onore, sono solo una falsa speranza, in quanto anche i lacedemoni ragionano in base all’utile e sicuramente non si getterebbero in un’impresa pericolosa quanto quella di difendere una piccola isola attraversando il mare signoreggiato da Atene. L’invito degli ambasciatori attici a riflettere con calma sulla decisione di salvare la patria, pagando un tributo e riconoscendo il dominio ateniese, o abbandonarla alla distruzione è inutile in quanto le vedute dei meli poco si discostano dalle risposte date durante il dibattito. Prevale la volontà di difendere la libertà di una terra abitata da settecento anni, la convinzione di avere gli dei favorevoli e la speranza in un aiuto spartano, e l’unica concessione a cui sono disposti è quella di mantenere lo status quo, la neutralità dell’isola.
Gli strateghi ateniesi costruirono una cinta di contenimento e posero l’assedio lasciandolo in mano ad un piccolo contingente mentre il grosso dell’esercito si ritirò. Giunto l’inverno, l’assedio venne intensificato con l’arrivo di un altro esercito guidato da Filocrate di Demea, mentre i lacedemoni non inviarono soccorsi. Dopo un tradimento, Melo fu presa. Gli uomini furono tutti uccisi, le donne ed i bambini resi in schiavitù e l’isola, occupata da cinquecento coloni, divenne possesso ateniese.

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