Voci e immagini da Samuel Beckett

Elena Capriolo

Voci e immagini da Samuel Beckett (Krapp’s Last Tape – Not I ), Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione, corso di laurea Dams, Relatore Prof. Ruth Anne Henderson, anno accademico 2003/04.

Capitolo 3

Krapp’s last tape

L’attore irlandese Patrick Magee nel dicembre del 1957 nel Third Programme di BBC Radio, lesse alcuni brani tratti da Molloy e Da un’opera abbandonata di Samuel Beckett: quella fu la scintilla che generò L’ultimo nastro di Krapp.
Beckett, infatti, restò così impressionato e colpito dalla qualità inconfondibile della voce di Magee, da quel suono stridulo che sembrava catturare tristezza, rimpianto e rovina, che iniziò a scrivere un monologo per il personaggio di un uomo anziano “con una vecchia voce affannosa e distrutta, dall’accento caratteristico”. In seguito ad alcune modifiche del testo originale, l’autore diede al vecchio uomo debole il nome di Krapp: un suono sgradevole con connotati spiacevoli (crap in inglese significa “merda”), che rispecchiavano fedelmente la sua immagine di “vecchio sfatto”, con fattezze e movenze simili ad un clown.
Il protagonista ci viene presentato “nella sua tana” buia: l’unica luce è sul tavolo al centro della scena, su cui sono posti anche un grande registratore, microfono e bobine; ciò prelude all’intenso rapporto che Krapp instaura con il suo registratore. Lo incontriamo infatti nell’atto di svolgere una sua vecchia abitudine: di incidere su una bobina, nel giorno del suo compleanno, una sintesi degli eventi dell’anno e di ascoltare un nastro del passato.
L’immagine che si presenta al pubblico, è di un vecchio che cammina goffamente per il palcoscenico, miope, duro d’orecchio, irascibile e impaziente; l’unico piacere che ancora possiede, deriva dal godimento infantile del suono vocale della parola “Spooool! Happiest moment of the past half million.(pause)”.
L’ultimo nastro del titolo suggerisce che la morte è vicina. Beckett spiegò all’attore Martin Held a Berlino: “la morte è lì. Sta dietro di lui e inconsciamente il vecchio la sta cercando” per evidenziare ciò nei primi allestimenti (come ad esempio nella produzione del 1969 allo Schiller Theater), Krapp lanciava sguardi ansiosi dietro la spalla destra, sospettoso che la morte lo stesse aspettando tra le ombre circostanti. Nella sua vita esaurita e isolata, il registratore è l’unica forma di contatto che può ottenere:
Pause.
Past midnight. Never knew such silence. The earth might be uninhabited.
Pause.”
In questa atmosfera, Krapp, prima di incidere il suo nuovo nastro, ascolta quello dei suoi trentanove anni; lo squallore dell’esistenza presente contrasta con le speranze e aspirazioni fissate nella bobina passata; il declino, la perdita, la disillusione sono mostrati concretamente: “…hard to believe I was ever as bad as that. Thank God that’s all done with anyway. (Pause)”. È lo spettatore stesso che, diventando testimone attivo, ha come la sensazione “di spiare uno strano incontro tra un vecchio patetico e un estraneo che egli sa di essere stato un tempo lui stesso”.

Voce

Numerosi sono gli esempi dei precedenti ritratti drammatici della letteratura europea di un vecchio che ricorda la sua vita passata, riflettendo sugli insuccessi, emblematico il Lear di Shakespeare o il servo Firs, che chiude Il giardino dei ciliegi di Cechov in desolazione: “La vita se n’è andata come non avessi mai vissuto… Mi allungherò qui. Non c’è più forza in te; non c’è niente, niente, Ah, tu…vecchio buono a nulla.”
L’idea geniale del registratore permise a Beckett di trattare in modo decisamente nuovo il tema del raccontarsi e del ricordo, creando un’immediatezza nel confronto che produce un effetto differente dai precedenti.
Anzitutto, anticipò l’influsso del medium tecnologico come surrogato della scrittura già nel 1958 e per la prima e ultima volta, Beckett decise di mettere in scena il mezzo che riproduce la voce: non si ha l’elemento straniante della voce fuoricampo. I motivi di tale scelta si potrebbero rintracciare nel voler evidenziare la profonda lotta di Krapp con ogni tempo della sua esistenza e nella ricerca di un bilanciamento per non cadere nel sentimentalismo.

Lotta con il Tempo e l’Esistenza

Krapp’s Last Tape è ambientato nel futuro, Beckett rende così credibile l’utilizzo da parte del giovane Krapp di uno strumento inventato solo dieci anni prima della scrittura dell’opera. Questo è il primo tempo presente nella pièce. Il dramma è infatti una straordinaria intersezione di tempi: il tempo presente, simboleggiato dal “grosso orologio d’argento con catena” conservato nel “panciotto nero ingiallito”; il tempo passato, che a sua volta ne contiene uno presente, passato (il Krapp trentanovenne ascolta una bobina di dieci-dodici anni prima) e uno futuro (i suoi propositi: “devo eliminarle”); anche il vecchio Krapp ha dentro sé il tempo futuro dell’interiorità, nel quale sono compresi passato e futuro, memoria e inconscio, che trascende l’incombenza della morte.
La fonte del ricordo è una forte presenza meccanica, non c’è modo di sfuggirvi, tanto da permetterci di definire lo spettacolo come monologo a più voci, per sottolineare la qualità effimera della vita quotidiana; è come vedere “a face endlessly reflected between two mirrors”, il Krapp sessantanovenne si riflette sul trentanovenne che si riflette sul ventisettenne e così via.
Lo sforzo di Krapp di dominare il tempo è caratteristico di tutta la sua esistenza, rinuncia anche all’amore per dedicare totale attenzione al suo fluire. Ogni critico definisce Krapp in modo diverso: è scrittore, poeta, intellettuale ma è possibile che queste siano solo occupazioni, strumenti per indagare dentro se stesso: Krapp è un ricercatore dell’identità propria e dell’unione del Tutto, un esploratore del buio della coscienza.

Luce ed Ombra

Il suo conflitto interno si nasconde dietro le parole e le azioni di Krapp, in costante riferimento al contrasto tra luce ed ombra, tra spirito e materia. Perciò la matrice culturale è individuata dallo stesso Beckett nella dottrina manichea, tuttavia il testo “si distacca dalle sue premesse filosofiche per vivere ciò che è detto e agito sul palcoscenico”; non è quindi un’esposizione di dottrina e sapere ma affresco della vita, colta nelle sue sfumature più profonde e dolorose.
La lotta nell’Anima di Krapp è ben sintetizzata dalle scelte scenografiche; ad esempio la luce della lampada simboleggia il tentativo di Krapp di arrivare alla separazione necessaria di Luce ed Ombra ma “separare l’una dall’altra nella vita e nei rapporti con gli altri è una faccenda molto più difficile e dolorosa, che conduce all’isolamento morale”. Krapp è infatti incuriosito (“Mi piace alzarmi ogni tanto e andarci a fare un giretto [nel buio], per poi tornare qui da…(esita)…me (pausa) Krapp.”) e sconcertato dalla presenza di questo dualismo nella sua tana e nel suo animo è una presenza tangibile che ricerca e teme allo stesso tempo.
In gioventù, questa spaccatura interna era contenuta attraverso la separazione o la riconciliazione, ma ora non più. Beckett in una delle sue rare interviste dice a Tom Driver: “se ci fosse solo l’oscurità, tutto sarebbe chiaro. È perché c’è anche la luce che la nostra situazione diventa inspiegabile… Laddove abbiamo nel medesimo tempo, buio e luce, abbiamo anche l’inspiegabile”.

Sentimentalismo e Humour

Affrontando l’inspiegabile, Beckett si preoccupa affinché non ne sia colto solo il sentimentalismo; questo delicato equilibrio si delinea nella costruzione del personaggio di Krapp che sfocia nello humour incisivo caratteristico del drammaturgo.
La coscienza del tragico così non si elabora nella forma di tragedia: l’eroe che ingaggia una battaglia intellettuale e morale si sgonfia nel vecchio clown volgare e smemorato.
È necessario però precisare l’utilizzo originale che l’autore fa della figura del clown. Durante gli allestimenti successivi che ha diretto o a cui ha collaborato, Beckett sceglie di colorare con toni sempre meno espliciti i connotati clowneschi esterni di Krapp: ad esempio, i suoi calzoni diventano meno larghi e il naso meno paonazzo; anche i suoi atteggiamenti più tipici (come il lancio furtivo della buccia di banana, la caduta evitata) non ricercano la risata gratuita e agiscono in modo più sotterraneo. Il clown è un uomo che si muove sotto lo sguardo di un altro, nella sua natura intessuta sul filo della tensione fra gli opposti: fra l’ordine e il caos, fra il bambino e l’adulto, fra l’innocenza e la cattiveria, fra il riso e il pianto, “sempre sul limite della caduta ma anche delle possibilità di sollevarsi e rigenerarsi”. Questa è la sua peculiarità che simbolizza il percorso di vita del protagonista, e in questo senso è utilizzato dall’autore.
Beckett ride per scaricare la tensione, per demolire le illusioni, le maschere, i veli. Per fare ciò colpisce non solo gli abiti ma anche la parola, fa precipitare le parole in frammenti, come se fossero anch’esse tecnologie limitate, sapendo che l’assoluto è altro e non afferrabile dal linguaggio e dall’intelletto. “Lo humour sbriciola la saturazione della parola”. Anche qui lo humour è grande risorsa drammatizzante, è la cifra che sgombra la via al salto di piano che avviene alla fine dello spettacolo.
Al termine della pièce infatti anche lo humour si smorza, la concentrazione assorta e quieta apre una nuova strada, quella dell’Accettazione. Krapp scorge il punto di arrivo dell’esistenza nell’esperienza della “failure” e ciò gli dona la possibilità di progredire, non fisicamente ma per arrivare al senso dell’esistenza. La stessa rinuncia ad accanirsi sull’identità tolgono la paura e la drammaticità della morte e “aprono a un quieto abbandono, a una quieta disponibilità a sciogliersi nel tutto: un’ identità non può morire o aver paura di morire.”
È a ciò che Krapp giunge: ora “fissando immobile fisso davanti a sé”, vede chiaramente la sua solitudine, sente l’incertezza e la sofferenza del percorso labirintico che ha scelto di seguire. Spogliandosi del suo intelletto e del suo essere fisico, conquista la rassegnazione (nel senso di abbandono di false speranze), crea il Vuoto di calma e Pace, trova la consapevolezza di sé: “Senza principio ne fine, senza passato senza futuro, un alone di luce circonda il mondo dello spirito. Ci si dimentica a vicenda, calmi e puri pieni della potenza e del vuoto.”
Questa lotta per la consapevolezza che Beckett intraprende gli permette di rappresentare “non una soverchia teatralità. Ma la verità”. Quella della vita e della morte, “le sue opere sono un inno alla Vita”, per questo probabilmente l’autore ha sempre rifiutato qualsiasi commento, chiarimento o spiegazione dei suoi lavori; nel testo è già stato detto “tutto ciò che c’era da dire”, non necessita di interpretazioni che rimandino a chissà quale concetto filosofico o teologico: “Beckett non si interpreta, si vive”.
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